Il governo ha recentemente proposto la partecipazione dei lavoratori agli utili aziendali. In passato, anche nei mesi scorsi, vi erano state proposte concrete di legare il salario alla produttività aziendale, con aperture significative dei sindacati, in specie di CISL e UIL: in generale si tratta di un orientamente coincidente con la tendenza a decentralizzare ampie fette della contrattazione sindacale verso la contrattazione aziendale.
L'intento sembrerebbe nobile e capace di creare un virtuoso legame tra andamento dei salari e andamento dell'economia reale. Tuttavia, va detto che la produttività di un'azienda non è, non lo è mai stato ma tanto meno lo è in imprese altamente capitalizzate come quelle attuali, un prodotto semplice del fattore lavoro. Le capacità gestionali del management, l'andamento ciclico dell'economia, ecc. incidono sulla produttività aziendali ma non dipendono da un maggiore o minore impegno dei lavoratori. I quali sarebbero in questo modo costretti a subire l'eventuale incapacità del management sulla propria pelle senza poter però licenziare quello stesso management.
Fra l'altro, bassa produttività non vuol dire basso utile. Cioè non necessariamente un'impresa poco produttiva è anche poco remunerativa per l'azionista: questi potrebbe anzi essere incentivato a fare pochi investimenti, ad adottare mille strategie per distribuirsi ampi dividendi, mentre la produttività aziendale cola a picco anno dopo anno per scarsa innovazione. Il risultato? Salari ristagnanti ma capitalista soddisfatissimo.
E' certamente vero che il problema del legame salario-economia reale si pone, ma va infine detto che in situazioni in cui l'economia reale ristagna per una crisi ciclica, legare il salario al ciclo economico rischia di deprimere ulteriormente la domanda a causa del ridursi dei consumi dei lavoratori. Insomma si rischia di generare un elemento pro-ciclico anziché contrastare cicli depressivi: avremmo dunque più crisi nei momenti di "magra", e più inflazione nei momenti di boom.
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