sabato 25 aprile 2009

Le banche sono meglio se piccole

Oggi si è votato per eleggere le cariche sociali della Popolari di Milano: l'assemblea più affollata del mondo, la definisce l'articolo su Repubblica di Giorgio Lonardi, con 10.000 soci iscritti al voto.

Al di là di casi, macroscopici, come quello della Popolari di Milano (Bpm) coinvolta dalla crisi che sta attraversando Banca Italease, coinvolta nel crollo del mercato ipotecario, o di vicende come quella della Popolare di Lodi di Fiorani, le banche popolari stanno vivendo oggi una nuova vita, meno coinvolte delle banche più grandi nella crisi della finanza globale, con un patrimonio di rapporti con il cliente che garantisce loro una solida base di sviluppo e una difesa rispetto agli andamenti ciclici del mercato. E così è anche per le piccole Banche di credito cooperativo (piccole in Italia: in Germania costituiscono circa il 19% della raccolta bancaria).

Il minore impatto della crisi finanziaria in Italia è quindi essenzialmente dovuto al ruolo importante che banche locali e medio-piccole vi giocano: quello che ci è stato detto essere un fattore di svantaggio per l'Italia si rivela oggi un vantaggio.

Paradossalmente, ci troviamo oggi a dover rivalutare anche l'operato del predecessore di Draghi alla guida della Banca d'Italia: al di là infatti dei comportamenti poco limpidi che hanno contraddistinto il suo governatorato di Bankitalia, Antonio Fazio operò una politica di guida delle concentrazioni bancarie italiane che ha permesso di mantenere in mani essenzialmente italiane il controllo del mercato creditizio, consentendo in questo modo: 1) di evitare che, in assenza di grandi industrie nazionali, le banche straniere controllassero di fatto il panorama industriale nazionale; 2) facendo modo che permanessero diverse banche su scala nazionale non globalizzate, caratterizzate da solida base di clienti e raccolta di depositi, e meno sensibili ai rischi del mercato finanziario.

Come molti dicono in queste settimane (ma perché tacevano fino a ieri?) è forse giunto il momento di una svolta nel capitalismo come lo conosciamo oggi.
Forse dovremo iniziare dal credito...

mercoledì 22 aprile 2009

Perché laico

Non posso che essere d'accordo con l'articolo di Franco Monaco che su Europa dell'11 aprile scorso (l'articolo si intitola "Perché il Pd non può essere la casa dei teodem" ma è interessante al di là del caso specifico). Vi invito a leggerlo. Per Monaco i teodem sono fuori casa nel Pd perché si sottraggono all'obbligo di "un'adesione anche etica e coscienziale" ai principi-guida di quel partito, perché hanno fatto proprio un "appello sistematico alla coscienza che surroghi il dovere di elaborare e poi difendere mediazioni politiche delle quali ci si assume una collettiva responsabilità. Come altrimenti si costruisce un partito politico degno di questo nome?"

Sono d'accordo, e mi verrebbe da dire che anche a livelli ben più locali c'è chi dovrebbe ascoltare queste sagge parole, ma soprattutto è qui che è il fondamento del fare politica: unirsi, mediare, trovare una soluzione condivisa sulla base di principi ispiratori condivisi, anche se magari si parte da idee diverse in quanto alla "applicazione" di tali principi, facendo fronte comune rispetto a impostazioni di pensiero, o minacce reali, completamente contrarie ai nostri principi: "A un partito si aderisce con motivazioni forti, cioè se e in quanto ci si riconosce nel patto posto a presidio di valori che si ritiene possano essere difesi di più e meglio insieme che non in solitudine".


Il fatto che i teodem poi abbiano avuto un peso nel Pd assolutamente sproporzionato, e che loro stessi abbiano lucrato sull'equivoco per cui essi sarebbero stati rappresentanti dell'opinione della gerarchia ecclesiastica, e unici rappresentani dei "cattolici", mi fa venire in mente quanto recentemente sottolineava Stefano Rodotà, illustre pensatore laico che ha dato alle stampe recentemente "Perché laico" per i tipi di Laterza. Per Rodotà è stato un Pd privo di identità a ricercare un rapporto privilegiato con le élites del paese in quanto avulso dalla realtà sociale, per cui un partito elitario e distaccato dalla società reale ha trovato naturale dialogare con le gerarchia ecclesiastiche ignorando tutto un popolo cattolico, una base cattolica molto più avanzata delle sue gerarchie (le quali a mio avviso hanno fatto una scelta politica reazionaria dalla quale molto difficilmente e solo molto lentamente potranno tornare indietro). E' un'analisi condivisibile, perché interpreta efficacemente diversi atti del nascente Pd del 2007-2008, come le candidature di Calearo, Colaninno: piuttosto che candidare l'artigiano veneto si candida il famoso industriale, alla necessità di elaborare una proposta politica, di fronte all'incapacità di farlo, si sostituisce la candidatura illustre, che tuttavia non risolve il problema.

Credo che oggi le cose stiano cambiando, ma il monito resta e spero sia efficace.


Stefano Rodotà
Perché laico
Laterza, 2009
pp. 193

lunedì 20 aprile 2009

GPF 2009

Con incredibile ritardo aggiorno il blog.

E' stato un mese intenso, ma pieno di stimoli. Sul fronte italiano, è partita la campagne per le Europee: Debora Serracchiani è stata a Gorizia lo scorso 16 aprile, la sala del Kulturni Dom era piena (e prossimamente metterò online le foto).

Io ho iniziato bene la mia primavera europea: dal 2 al 4 aprile ero a Bruxelles per partecipare al Global Progressive Forum, un'assise di conferenze e dibattiti organizzata dalla Global Progressive Fundation con il supporto del PSE e che ha visto la presenza di relatori del calibro di Bill Clinton (sì, proprio lui!), Rasmussen, Josep Borrell, Lionel Jospin, Howard Dean, Pascal Lamy (WTO), Piero Fassino.

C'è stato l'intermezzo di una chiacchierata con Fassino, e un rapido incontro con Franceschini, ma soprattutto tanti stimoli che ti fanno pensare che il livello del dibattito politico in giro per l'Europa sia parecchio più alto di quello nostrano. E soprattutto, c'è chi non si vergogna di definirsi progressista (l'ha fatto anche Franceschini, annunciando che il Pd formerà uno stesso gruppo nel parlamento europeo assieme agli altri partiti socialisti, democratici e progressisti europei), di dire che non è giusto scaricare sulla collettività il costo degli errori della finanza (Borrell), di citare Gramsci (un po' tutti, compresi molti Democrats americani... il che mi ha fatto sentire un tantinello ignorante...).

Abbiamo davvero tanto da imparare...!

martedì 7 aprile 2009

Sul friulano...

Oggi ho mandato a Sconfinare, il bimestrale degli studenti del corso in Scienze internazionali e diplomatiche, la seguente lettera, che è una risposta all'articolo di Francesco Scatigna, comparso a febbraio e dal titolo volutamente provocatorio "Il friulano non è una lingua".
Che ne pensate?


Caro Francesco,

ho avuto modo di leggere, con l’uscita degli ultimi numeri di “
Sconfinare”, prima il tuo articolo dal titolo provocatorio “Il Friulano non è una lingua
” sul numero di febbraio 2009, poi più di recente la replica al vetriolo di Giovanni Bernardis sul numero di aprile.
Non mi voglio dilungare sulla disquisizione sul fatto che il friulano, e qualunque altro idioma, sia o meno una lingua piuttosto che un dialetto: una disquisizione tanto annosa quanto inutile, essendo talmente labile e indeterminata, anche tra i linguisti, la separazione tra i due termini, e la definizione degli stessi, che ogni dibattito in materia risulta una semplice perdita tempo. Non dovrebbe servire far notare che spesso a stabilire se un’idioma avesse diritto al rango “legale” di “lingua” sono state guerre, cambiamenti nell’importanza economica di una regione e altri eventi storici di maggiore o minore durata nel tempo. (Quindi, a differenza di quanto tu affermi quasi in conclusione del tuo articolo, la distinzione tra lingua e dialetto è molto più fondata sul piano politico che sul piano linguistico).
Quel che conta, semmai, è l’autoidentificazione da parte di un dato gruppo di persone, chiamiamolo “popolo” se vuoi ma diciamo piuttosto un dato gruppo etnico. L’identità di un gruppo etnico ha varie basi: talvolta religiose, talvolta territoriali, talvolta appunto linguistiche. Più spesso un insieme di tutte queste cose.
Accade spesso che un gruppo etnico trovi nella lingua un forte elemento di autoidentificazione e distinzione (è il caso dei catalani, ad esempio, o dei ladini), altre volte è la religione (è il caso degli ebrei). Nel caso dei friulani, l’elemento linguistico è sicuramente predominante (certamente, anche qui, alla formazione di quest’identità concorrono tanti altri fattori, ma l’elemento distintivo nell’autopercezione degli stessi è la lingua: è friulano chi sa parlare o almeno capire il friulano). Quanto a ciò che sta alla base di tale autopercezione, che possa essere più o meno futile, più o meno storicamente fondato, non sta a nessun altro stabilirlo e giudicarlo in quanto si tratta appunto dell’autopercezione, dell’immagine che un popolo ha di se stesso. Immagino sia questo che intendi quando parli di “
questa ritenuta unicità [...] che ha spinto su questo aspetto (buono in partenza) così importante per la comunità
”.

Se questa è la situazione, risultano quanto mai difficili da comprendere, almeno su un piano razionale, talune tue osservazioni.
Innanzitutto, affermi che la tradizione è importante finché “
non diventa prevaricazione nei confronti del vicino”. In primo luogo, risulta poco comprensibile a cosa tu ti riferisca. Immagino che vedere la segnaletica stradale di alcune parti del Friuli riportare “Vignesie” accanto a “Venezia” possa suscitare confusione (in specie nei turisti: e per questo sarei d’accordo a togliere questi cartelli bilingui che rischiano di far impazzire il turista), ma non vedo come possano suscitare una qualche forma di “prevaricazione
”. Per quanto riguarda l’uso del friulano nelle scuole, per come la proposta era stata fatta (l’uso in forma veicolare quando tutti fossero stati d’accordo, o in un’altra formulazione, quando nessuno si fosse opposto) era tale, anche qui, da non prevaricare nessuno. Quindi sul piano concreto i rilievi non sussistono. Se si tiene poi conto che le ore di friulano non erano tolte a nessun’altra materia, non si vede nemmeno dove sia l’arroccamento culturale di cui parli.

Resta quindi solo da capire perché porre un diniego rispetto ad un’istanza di riconoscimento da parte di un’etnia di un elemento distintivo della propria cultura, considerato che non prevarica nessuno, non fa male a nessuno. Sarà che per formazione guardo a queste questioni con un’ottica liberale, ma così stando le cose mi posso solo porre, e credo che la politica debba sempre solo porsi la domanda “
C’è un valido motivo (razionale) per dire NO?
”. Personalmente non ne vedo.

Detto questo, mi permetto due ultime annotazioni.
In primo luogo, fai riferimento in maniera un po’ approssimativa all’uniformazione che ha subito il friulano negli ultimi anni. Nello specifico, ad essere stata uniformata per ragioni didattiche e ortografiche è la grafia e la grammatica del friulano scritto. Poi ognuno può pronunciare la parola scritta nel modo previsto dalla propria variante locale del friulano. La maggiore o minore variabilità di una lingua al suo interno è del resto dipendente da varie condizioni: nel caso friulano una certa variabilità potrà esser stata causata dalla scarsa mobilità geografica della popolazione contadina, dalle contaminazioni delle aree confinarie con idiomi contigui, o dall’isolamento geografico delle vallate alpine e prealpine.
In secondo luogo, ritengo che la politica abbia la funzione, in una democrazia, di far proprie e veicolare nelle istituzioni rappresentative le istanze della società. Mi trovo quindi difficilmente d’accordo quando affermi che del friulano “
si devono occupare i linguisti, gli studiosi di etnoantropologia, anche i sociologi. Comunque, gli studiosi. Non i politici” perché innanzitutto se emerge un’istanza dalla società, la politica se ne deve occupare, in un modo o nell’altro, altrimenti significa che la democrazia non funziona; e in infine perché se una lingua è viva e vissuta, essa è viva nella società delle persone, nella polis dunque, e non vive solo negli studi e nei simposi di linguisti e antropologi.

domenica 5 aprile 2009

Se è finito il tempo delle "modifiche di dettaglio"


Fioroni, leader della corrente popolare all'interno del Pd, ha criticato la scelta di Franceschini (in foto), segretario nazionale del Partito democratico, di scendere in piazza con la CGIL nella manifestazione contro il governo: "è finito il tempo del collateralismo tra politica e sindacati" (Il Messaggero di oggi). Ha certamente ragione a criticare Bersani che chiedeva l'adesione formale del Pd alla piattaforma della CGIL: un partito di massa, che ambisce a rappresetnare l'interezza o quasi della società, deve mantenere una necessaria autonomia politica rispetto ai sindacati che sono comunque organizzazioni corporative. Tanto più che oggi è ormai difficile individuare classi ben determinate, vi è stata da ormai qualche decennio una polverizzazione delle strutture e appartenenze sociali per cui il sindacato rappresenta comunque una parte, importante, ma solo parte della società, del ceto medio, del mondo del lavoro.

Dunque bene Franceschini.



Ma è di altro che volevo parlare. Fioroni sostiene che, a riguardo dell'accordo tra CISL e UIL e governo per la riforma della contrattazione collettiva: "E' sbagliato il rifiuto della CGIL perché in quell'accordo c'è tanta parte delle nostre proposte, delle proposte del Pd".

"Tanta parte"?

Ecco, qui è il nocciolo del problema. Che obiettivo ci poniamo? Correggere le politiche del centrodestra? O proporre politiche alternative?

Ovvio che ci siano anche alcune cose che abbiamo proposto noi, ma l'impianto complessivo non è quello che vuole il Pd, l'impianto complessivo contribuisce a ridurre il potere contrattuale del lavoratore in un periodo in cui, l'ha confermato recentemente il Censis, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti sono cresciute sempre meno dell'inflazione reale dal 2001 ad oggi (guarda caso nel 2001 andò al governo Berlusconi).

Ecco allora che i correttivi non ci bastano. Non possiamo accontentarci di non protestare rispetto ad una riforma della contrattazione solo perché dentro c'è qualche cosa che avremmo proposto noi. E il resto, che non avremmo mai proposto?